Oltre la forma: l’incanto della materia
Architect Michela Ekström
La materia è il primo linguaggio dell’architettura. Non una scelta tecnica, ma un racconto stratificato, una memoria sedimentata nel tempo. Un muro in pietra grezza trattiene il calore del sole, il legno consumato di una scala scricchiola sotto il peso degli anni, il cemento si lascia levigare dalla pioggia e dal vento. Ogni superficie porta in sé la traccia di chi l’ha attraversata, di chi l’ha sfiorata, di chi l’ha vissuta. Abitare non significa solo contenere uno spazio, ma riconoscere la voce muta della materia, leggerne le storie incise nella luce, nelle ombre, nelle screpolature del tempo.
In La poetica dello spazio, Bachelard ci parla di case che restano dentro di noi. Sono luoghi che non esistono solo nella memoria, ma continuano a vivere nelle sensazioni di un tatto, di un odore, di una superficie che ci accoglie. L’architettura, allora, non è un fatto puramente visivo, è una grammatica di texture e volumi, di pieni e vuoti, di superfici che trattengono e restituiscono il mondo. La materia non è neutra: è risonanza, è evocazione, è incanto. Un vetro che si appanna tra interno ed esterno, una lastra di ferro che si ossida con le stagioni, una pietra che si scalda e si raffredda come un corpo vivo. L’architettura parla attraverso questi segni, si fa presenza attraverso il tempo.
Eppure, la contemporaneità sembra aver perso questa relazione profonda con la materia. L’immagine ha sostituito l’esperienza, la levigatezza ha preso il posto della tattilità. Assistiamo alla progressiva astrazione della costruzione, dove lo spazio diventa icona, una superficie digitale da attraversare con lo sguardo, non con il corpo. Toccare non è più necessario, perché l’architettura è stata addomesticata nella sua versione più perfetta, più artificiale, più inerte. Ma un edificio non è mai solo immagine. Un’architettura autentica si riconosce dal modo in cui risponde alla luce, dal suono che produce al passaggio del vento, dalla capacità di trattenere il respiro del tempo. Un intonaco che si sfoglia, un pavimento che porta l’orma dei passi, un legno che assorbe il calore dell’abitare. Non c’è architettura senza trasformazione, non c’è durata senza metamorfosi.
Maria Lai parlava dell’educazione allo sguardo, della necessità di imparare a vedere non solo con gli occhi, ma con tutto il corpo. L’architettura ha perso il suo potere evocativo perché il nostro sguardo si è abituato a scivolare sulle superfici, senza più indugiare sulle loro imperfezioni, sulla loro capacità di raccontare. Se la materia è linguaggio, allora dobbiamo reimparare a leggerla. Guardare un muro non significa solo percepirne il colore o la forma, ma riconoscere il modo in cui il tempo vi ha lasciato la sua impronta. Ogni dettaglio è un frammento di un racconto più ampio, un’architettura che non si limita a essere vista, ma che si offre al tatto, all’ascolto, alla presenza.
Un edificio vivo è un organismo che dialoga con ciò che lo circonda. Le ombre che si allungano sulle superfici, la luce che filtra attraverso le trame, le superfici che cambiano con il passare delle stagioni: ogni materia è in continua trasformazione. Il cemento levigato dal passaggio di mille persone, la pietra scaldata dal sole, il legno che si scurisce e si crepa con gli anni: ogni variazione è un segno di vita, non di usura. L’architettura non dovrebbe resistere al tempo, ma respirarlo, accoglierlo, trasformarlo in parte del suo racconto.
Anche l’assenza è materia. Il vuoto tra due pareti, la luce che attraversa un’apertura, il ritmo delle ombre lungo una facciata: l’architettura esiste anche nello spazio tra le cose, nell’intervallo, nella sospensione. Forse dovremmo tornare a guardare gli edifici non solo come oggetti, ma come luoghi che ci parlano. Abitare non significa solo occupare uno spazio, ma ascoltare il linguaggio della materia, sentire il respiro dei materiali, riconoscere il tempo nelle cose.
L’architettura che incanta è quella che ci lascia una traccia, un segno sottile, un’eco che resta nel corpo. Forse, allora, il compito dell’architettura non è solo costruire, ma accogliere. Tornare a essere materia sensibile, un racconto che non si esaurisce nella forma, ma continua a vivere nelle mani di chi la sfiora, nei passi di chi la percorre, nello sguardo di chi ancora sa vedere.